mercoledì, settembre 15, 2010
CW - il mondo a punti e linee
Morse: punto, linea e a capo
Dichiarato defunto almeno tre volte in un secolo, il codice di comunicazione binario
più famoso del mondo sopravvive invece e serve ancora anzitutto grazie ai radioamatori. Che l’hanno usato con ottimi risultati nell’ultima emergenza mondiale: il terremoto di Haiti
di Giacomo Gambassi
Avvenire 12 settembre 2010
L’avevano dato per spacciato già nel primo scorcio del Novecento, quando il calore umano della voce ricevuta da un telefono aveva sostituito il ticchettio metallico del telegrafo e le sue lunghe strisce di carta. Era stato considerato a un passo dalla fine delle trasmissioni anche nel 1932, anno in cui il Post Office britannico aveva sentenziato: il codice Morse è stato ufficialmente abbandonato (benché, poi, negli Stati Uniti e in Australia abbia resistito fino agli anni Sessanta). Era stato intonato di nuovo il de profundis nel 2005, non appena l’Unione internazionale telecomunicazioni (Itu) aveva abbattuto l’ultimo baluardo che sembrava lo tenesse in vita: non era più necessario conoscere la lingua dei pionieri della comunicazione per ottenere il patentino da radioamatore.
E, invece, nell’era delle email, degli smartphone e di twitter, è ancora vivo e vegeto l’alfabeto composto da punti e linee che porta il nome dell’inventore del telegrafo, il pittore statunitense Samuel Morse (foto in alto). Un codice binario ideato nella prima metà dell’Ottocento che per un certo verso ha anticipato il bit, l’anima a due cifre (lo zero e l’uno) dei computer e di internet, e che per decenni ha unito via cavo o per etere villaggi e continenti, ha fatto arrivare telegrammi e dispacci d’agenzia nelle redazioni dei giornali, ha guidato sui mari le navi e purtroppo ne ha annunciato le tragedie, come quei tre punti, tre linee e ancora tre punti del sos lanciato nel 1912 dal Titanic che affondava, incappato in un iceberg. (In realtà l'operatore del Titanic trasmise CQD seguito da MGY che era il callsign della nave n.d.r.).
Di fatto un precursore del «villaggio globale» teorizzato da Marshall McLuhan, che oggi continua a essere un gergo mediatico nonostante l’età pensionabile. Ne sono i custodi gli oltre due milioni di radioamatori sparsi per il mondo, che con antenne istallate sul tetto di casa e trasmettitori impiantati in cantina o nel soggiorno si collegano attraverso quelle onde trasformate dal bolognese Guglielmo Marconi in un nastro trasportatore di segnali elettrici.
«Il Morse – spiega il presidente dell’Unione internazionale radioamatori, il canadese Timothy Ellam – resta un metodo molto popolare fra gli hobbisti. Anche se non è più un requisito previsto dai regolamenti mondiali, è ancora studiato». Come a dire: non si tratta di semplice sopravvivenza. Del resto il codice dei telegrafi è, ad esempio, la lingua delle emergenze. «Lo sa bene chi ha ascoltato in cuffia, lo scorso gennaio, le comunicazioni sul terremoto di Haiti», rivela Marcello Vella, 52 anni, funzionario del Comune di Palermo e, nel tempo libero, presidente dell’European Radioamateurs Association (Era) che in Italia conta 450 soci pronti a intervenire nei radiocollegamenti di protezione civile. E le ragioni di questo ritorno al passato, quando si è con l’acqua alla gola, non sono sentimentali. «Il Morse permette di inviare o ricevere messaggi in condizioni di banda limitata – racconta Dennis Franklin, 65 anni, di Fremont in California –. Non solo. Quando il rumore di fondo è elevato ed è complicato comprendere una voce trasmessa via radio, il Morse consente di dialogare. Per di più non esistono accenti o dialetti che sono tipici della lingua umana».
Franklin è uno dei diecimila membri dell’ International Morse Preservation Society, il sodalizio fondato nel 1987 dall’inglese Geo Longden per salvaguardare l’alfabeto massmediale delle origini. Una rete di amici diffusa in tutto il mondo che considera il vecchio codice «quasi una forma d’arte» e che chiama «nostri eroi» Morse e Marconi. Una loro icona è il pugno aperto: perché questa è la forma che assume la mano quando batte sul tasto in legno con cui si trasmettono gli impulsi.
Certo, gli allarmi a suon di punti e linee non sono affidati soltanto all’etere. Il Morse viene ancora insegnato nei corsi di primo intervento o nelle università (anche italiane): basta scorrere il piano di studi di un «master in soccorso avanzato nelle emergenza extraospedaliere» per imbattersi nella lingua del telegrafo come uno dei sistemi apprendere. Comunque, se si è in pericolo, un messaggio che segue la storica tavola può essere inviato con le bandierine, con una luce a intermittenza, con uno specchio che riflette il sole, con un fischietto. E persino con un martelletto. Come avevano fatto nell’estate del 2000 i marinai del sommergibile atomico russo «Kursk» affondato nel mare di Barents: non potendo ricorrere alla radio, il 10 agosto colpirono con un battente lo scafo metallico e grazie al Morse trasmisero all’esterno le loro richieste di aiuto. A dimostrazione di come l’idioma creato dal pittore-inventore sia versatile e consenta comunicazioni essenziali in situazioni estreme.
«Nelle radio emergenze – aggiunge Vella – il vecchio codice è, per le sue caratteristiche, il modo più sicuro di inviare notizie a grandi distanze anche se non si conosce la lingua del corrispondente». Già, perché il Morse va a braccetto con abbreviazioni internazionali che rappresentano una sorta di "inglese" universale ante litteram, in grado di essere compreso in ogni angolo del pianeta. È il caso del codice Q, che in tre lettere (la prima è sempre la Q) condensa frasi standard. Così, quando si vuol chiedere «qual è il tuo nome?», è sufficiente digitare QRA?; oppure, se si vuol far sapere che «ho ricevuto» un testo, va scritto QSL. «Non mancano, poi, altre sigle molto apprezzate – precisa Dennis Franklin – Il 73 sta per "auguri" e CUL per "ci vediamo più tardi". È in questo modo che contatto un amico italiano nonostante non sappia la vostra lingua».
E che il Morse non sia soltanto un pezzo di antiquariato è provato dall’aggiornamento della sua mappa dei caratteri. A distanza di quasi due secoli dalla nascita, è entrata nell’alfabeto a ticchettio la chiocciola, elemento chiave per la posta elettronica. La revisione è stata decisa qualche anno fa dall’Itu per colmare il gap creato dalle nuove tecnologie, ricorrendo alla sequenza delle lettere A e C senza spazi intermedi che descrivono la @. Una scelta che sembra richiamare l’operazione del Lexicon recentis latinitatis, il dizionario pubblicato dalla Libreria editrice vaticana che attualizza la lingua di Cicerone. Di fatto, un po’ come la Chiesa mantiene vivo il latino, così i marconisti di oggi hanno adottato il codice dei loro padri come linguaggio privilegiato. E nel Lexicon il telegrafista è definito uno «scriba telegraphicus».
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Il traduttore morse
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e tra i caratteri ha introdotto la chiocciolina
In fondo anche l’alfabeto Morse ha radici cristiane. Legate, da una parte, alla religiosità statunitense e, dall’altra, all’associazionismo: che resta uno dei collanti fra l’esperienza di fede e la società. Partiamo dall’inizio.
La storia del codice si sovrappone a quella del telegrafo che l’americano Samuel Morse brevetta a cavallo fra gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento. La prima linea telegrafica che vede la luce è quella fra Baltimora e Washington. Il 24 maggio 1844 viene inviato il messaggio d’esordio. È un versetto della Bibbia tratto dal capitolo 23 del libro dei Numeri: «Cosa ha operato Dio!». Poi, quando la lingua binaria dell’artista-inventore si trasforma nel cardine del primo sistema internazionale di comunicazione che, con il «telegrafo senza fili» di Guglielmo Marconi, farà il suo vero salto di qualità, il codice Morse diventa sempre più popolare. Non solo fra gli addetti ai lavori, ma anche fra i ragazzi.
Le lettere convertite in punti e linee piacciono agli scout, il movimento fondato nel 1907 da Robert Baden-Powell. «Ho imparato la mappa caratteri del Morse – racconta il 65enne californiano Dennis Franklin, membro dell’International Morse Preservation Society – quando ero boy-scout. Lo utilizzo da quasi mezzo secolo e l’ho perfezionato da radioamatore». Certo, dialogare con luci o suoni a intermittenza in un’uscita dell’Agesci è una sorta di tuffo nel passato per bambini o adolescenti cresciuti con il cellulare o davanti al computer.
E chi l’ha detto che il Morse sia sinonimo di comunicazioni al rallentatore? In Australia, nel luglio del 2005, col patrocinio del Powerhouse Museum di Sydney che unisce scienza e design, si sono sfidati un ultranovantenne telegrafista in pensione, Gordon Hill, e un tredicenne appassionato di sms, Brittany Devlin. Obiettivo: accertare chi fosse il più veloce a inviare un testo. Ebbene, il veterano delle radiotrasmissioni ha avuto la meglio battendo di gran lunga il ragazzo «esperto» in messaggini. Del resto, si continua ancora oggi a giocare con il Morse.
Basta assistere alle gare del Campionato del mondo di telegrafia ad alta velocità (l’Hst, che sta per High speed telegraphy) che dal 1995 si tiene ogni due anni in giro per il globo. L’ultima edizione si è svolta nel 2009 a Obzor, in Bulgaria. Quattro sono le prove: due di trasmissione e due di ricezione. Nel test di ricezione le lettere in Morse vengono inviate a velocità sempre superiori finché il concorrente è capace di comprenderle. Nell’esame di trasmissione va scritto il maggior numero di caratteri e cifre in un minuto senza commettere errori. E i fuoriclasse? Non sono soltanto cinquantenni o sessantenni. Nel torneo ci sono anche categorie riservate agli under 16 o a chi ha fra i 17 e 21 anni. Perché – viene da dire – il Morse fa incontrare le generazioni.
di Giacomo Gambassi (Pubblicato su Avvenire, inserto Agorà, il 12 settembre 2010)
CW - La storia del Morse
Il ticchettio creato da un pittore per volare sui mari
All’ingresso dell’area sulle telecomunicazioni, nel Museo nazionale della scienza e della tecnologia «Leonardo da Vinci» di Milano, uno dei primi strumenti esposti è il telegrafo.
Con il tasto Morse il visitatore può trasmettere il suo messaggio a una manciata di metri di distanza, nella sala delle reti che ospita centralini telefonici e impianti di trasmissione. «Abbiamo voluto mostrare come telegrafo e telefono si intreccino nella storia», spiega Massimo Temporelli, curatore del Dipartimento comunicazione del museo.
Del resto la telegrafia nasce su una nave, quella che nel 1832 riportava il pittore Samuel Morse - nella foto - (1791-1872) negli Stati Uniti dopo un tour in Europa. «È qui che ha l’intuizione di unire il disegno con l’elettromagnetismo di cui aveva scoperto dettagli e fenomeni durante il viaggio – racconta Temporelli –. Di fatto, con la sua invenzione, Morse avvicina il vecchio continente con il nuovo, prima idealmente e poi fisicamente grazie al primo collegamento telegrafico tra Stati Uniti e Europa del 1866».
Il congegno che comunica con il famoso codice di punti e linee soppianta ben presto i precedenti telegrafi ad aghi. In Italia la linea del debutto è quella fra Livorno e Pisa del 1847. Lo stesso anno Morse, finalmente ricco grazie ai suoi brevetti, compra una tenuta a Poughkeepsie, nello Stato di New York, che ribattezza Locust Grove e che oggi è una casa-museo in cui rivive la storia del telegrafo. Nel nostro Paese il nuovo sistema si afferma in pochi anni. «E la rete telegrafica – afferma Temporelli – sarà la prima importante infrastruttura di comunicazione che unirà l’intera Penisola».
Poi, con le onde radio di Guglielmo Marconi, la telegrafia sbarca nell’etere. Corre l’anno 1895. «Il suo tramonto – conclude Temporelli – comincia dopo la prima guerra mondiale, quando il telefono diventa interurbano e si amplia la sua portata al di là dei confini delle singole città. Comunque un residuo dell’invenzione di Morse resta il telegramma, considerato un vero e proprio atto ufficiale rispetto alle comunicazioni vocali».
di Giacomo Gambassi (Avvenire, inserto Agorà, 12 settembre 2010)
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